Torna alla sua sua 60esima edizione la Biennale di Venezia 2024. La più antica rassegna internazionale nata nel 1895 e rivolta alle arti contemporanee, è un appuntamento a cui Sorelle su Marte non manca mai, imperdibile per chi lavora nel mondo dell’arte come Valentina. Ma anche per i semplici appassionati consigliamo di visitare almeno una volta nella vita la prestigiosa esposizione con la presenza di artisti provenienti da tutto il mondo.
Il percorso si articola principalmente tra i Giardini della Biennale e l’Arsenale ma ci sono presenze di Padiglioni sparsi in città, unitamente ad una serie di iniziative satellite in laguna. Venezia per l’occasione diventa un museo a cielo aperto, una vera palestra per gli occhi. Noi l’abbiamo vissuta nei tre intensi giorni di preview dedicata alla stampa e agli operatori di settore, tra opening, party ed eventi collaterali. Ecco i nostri consigli sulle cose imperdibili di questa Biennale di Venezia 2024 visitabile fino al 24 novembre 2024.
(articolo scritto con la collaborazione di Silvia Cavalsassi)
Il Padiglione della Biennale di Venezia 2024: Foreigners everywhere – Stranieri Ovunque
Foreigners everywhere – Stranieri Ovunque è il titolo scelto da Adriano Pedrosa, primo latino-americano, apertamente queer, a curare l’Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale. La mostra collettiva Stranieri Ovunque si snoda tra il Padiglione centrale nei Giardini e le Corderie dell’Arsenale. Il titolo è tratto da una serie di lavori realizzati dal collettivo Claire Fontaine, nato a Parigi e con sede a Palermo. Le opere, sculture al neon di diversi colori, riportano la citazione Stranieri Ovunque in più lingue. La frase si ritrova puntualmente nell’esposizione come un fil rouge e vuole significare che tutti noi, nel profondo, ci sentiamo stranieri spesso perseguitati e ovunque sempre circondati da stranieri. Lo straniero è l’artista queer, l’outsider o l’artista indigeno.
Una Biennale dedicata dunque a chi è perseguitato, chi si trova ai margini, ai rifugiati e agli espatriati. I temi affrontati sono quelli dell’anticolonialismo, delle migrazioni e dei movimenti di resistenza LGBTQ⁺. E’ la Biennale degli esclusi che per la prima volta vengono esposti portando alla ribalta il Sud del mondo. Grande spazio è riservato all’arte indigena che accoglie il visitatore con un monumentale e coloratissimo murale di settecento metri quadri realizzato dal collettivo brasiliano Mahku dipinto sulla facciata principale dell’edificio del Padiglione Centrale ai Giardini.
Sono 332 gli autori presenti nella mostra collettiva insieme ad un Nucleo Storico composto da opere del XX secolo provenienti da America Latina, Africa, Asia e dal mondo arabo. Due elementi contraddistinguono la mostra Stranieri Ovunque: da un lato le opere rivelano un forte interesse per l’artigianato, il tessile, la tradizione e il fatto a mano, dall’altro molti artisti esposti sono legati da vincoli di sangue e parentela. Del nucleo storico ci ha colpite il lavoro di matrice surrealista dell’artista Aloïse Corbaz (1886-1964) che trascorse la maggior parte della sua vita confinata in un ospedale psichiatrico e ha lasciato su un rotolo di carta lungo 14 metri ritratti femminili realizzati con materiai variegati come dentifricio, fili e pastelli a colori.
Presenti anche alcune opere di Frida Kahlo e Diego Rivera. Tra le nuove realtà spicca l’italiana Giulia Andreani, femminista, con il suo grande acquerello monocromatico in grigio di Payne. La scuola di taglio e cucito parla della donna e dei mestieri dimenticati: un esercito di allieve con al centro la matriarca insegnante il cui colore sbiadisce poco a poco.
Tra le grandi installazioni a terra e dal soffitto, murales dai colori accesi e videowall sospesi lungo le Corderie, è suggestivo l’allestimento delle opere esposte sui famosi cavalletti di vetro di Lina Bo Bardi (architetto italiano trasferitasi in Brasile), da cui spunta la mappa dell’Italia bruciata di Anna Maria Maiolino premiata con il Leone d’Oro alla carriera.
I nostri Padiglioni preferiti alla Biennale di Venezia 2024
Sono 90 i Padiglioni Nazionali tra cui la presenza significativa della Santa Sede all’interno del carcere femminile sull’Isola della Giudecca. Quello di Israele invece è stato allestito ma non aperto al pubblico ed espone il cartello chiuso finché non saranno liberati gli ostaggi e ci sarà un cessate il fuoco. La Bolivia ha invece preso in prestito il padiglione dalla Russia assente dalla Biennale dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022.
The space in which to place me è il titolo del padiglione degli Stati Uniti d’America, ispirato alla poesia Ȟe Sápa di Layli Long Soldier, manifesto provocatorio sull’inclusività che Jeffrey Gibson, artista interdisciplinare, ha voluto esprimere attraverso l’uso di colori ipervitaminici. Un vero inno alla gioia che coinvolge e spinge il visitatore a riflettere sull’importanza e la presenza della cultura dei nativi americani negli Stati Uniti e in tutto il mondo. All’ingresso del padiglione si erge una grande scultura interattiva, un insieme di piedistalli in stile classico realizzati in cemento e vetroresina di colore rosso acceso, che stimola ad usufruire dello spazio esterno come luogo di incontro e di apertura al dialogo.
All’interno si trovano sculture dalla forte presenza evocativa realizzate in ceramica con frange, perline e campanelline prodotte in Asia per il circuito dei powpow (i nativi d’America) e che prendono vita su wall paper a motivi geometrici. In chiusura l’omaggio dell’artista al matriarcato indigeno attraverso la video installazione sul tema della Jingle Dance eseguita per invocare la protezione degli antenati e per ricordarci che non balliamo mai da soli.
Il Padiglione della Francia dedicato al Sud globale è firmato dall’artista franco-caraibico Julien Creuzet. Un invito a lasciarsi trasportare da suggestioni liquide già presenti sulla facciata d’ingresso in un videowall dove danzano tra le correnti statue dei continenti e presenze mitologiche. Un’esperienza immersiva tra video, sculture, sequenze musicali e stimolazioni olfattive. Storie dell’Oceano Atlantico si fondono con quelle del Mediterraneo dando vita a nuovi miti in un gioco continuo di riscoperta di memorie collettive.
Per il Padiglione della Gran Bretagna l’artista inglese John Akomfrah ha realizzato un’installazione composta da otto diverse opere multischermo e audio sovrapposte articolate in canti dal titolo Listening all Night to the Rain (Ascoltando la pioggia tutta la notte), tratto da una poesia dello scrittore e artista cinese Su Dongpo. L’artista, da sempre sensibile agli effetti del post-colonialismo, esplora anche temi universali come la memoria, la migrazione, l’ingiustizia razziale, il cambiamento climatico e propone il suo manifesto sull’atto del porsi in ascolto inteso come forma di attivismo.
Dal mix di filmati di repertorio, clip audio e documenti geopolitici, John Akomfrah trova una nuova chiave onirica per raccontare i protagonisti della diaspora britannica. Ne deriva la creazione di un mondo in cui le installazioni incarnano l’idea di acustemologia dall’unione di acustica ed epistemologia, in cui l’analisi dei suoni diventa modalità di conoscenza. Di grande effetto nella sala in uscita è il soffitto ricoperto da radio vintage ammassate l’una sull’altra che trasmettono voci di un’epoca lontana.
La Germania è rappresentata dalle opere dell’artista israeliana Yael Bartana e del regista tedesco Ersan Mondtag. Thresholds (Soglie) il titolo scelto per raccontare un presente catastrofico, un non luogo dove è impossibile sostare e prossimo all’implosione che diventa punto di contatto tra ciò che è già accaduto e ciò che ancora deve avvenire. Lo spettatore è accompagnato attraverso la visione immersiva di grandi installazioni video, in un percorso di riflessione sul concetto di soglia intesa come confine tra dimensioni diverse e tra due scenari possibili, attraverso una ricostruzione frammentaria del passato e la progettazione di un futuro immaginario che raccoglie nuove memorie della storia delle nazioni.
Drama 1882 è il titolo scelto per il Padiglione Egiziano rappresentato dall’artista Wael Shawky che ha voluto riflettere sull’occupazione dell’Egitto, avvenuta secondo l’autore non da parte dei migranti bensì dai colonizzatori. L’artista propone una versione filmata di un’opera musicale da lui stesso composta, diretta e coreografata che prende le mosse dalla data del titolo che ricorda la sanguinosa repressione da parte degli inglesi e la rivolta popolare nota come Urabi revolution. Un’opera completa su pellicola con tanto di sipario, costumi, danze, canti e recitativi.
Surreale ed onirica dal forte impatto estetico racconta la vicenda storica in forma di cantilena con decine di attori e comparse che si muovono in slow motion, avanti e indietro come fili d’erba mossi dal vento. Quaranta minuti di proiezione che sortisce sugli spettatori un effetto straniante ed ipnotizzante. All’interno del padiglione si intravedono nella penombra alcuni mobili d’artista dalla forma irregolare riempiti di svariati oggetti e fave secche, come parti della scenografia e dello storytelling culturale, religioso e artistico della vicenda mediorientale.
Il Padiglione dell’Ungheria è affidato a Márton Nemes influenzato dalle sottoculture techno, un multiverso generato dall’effetto combinato di tecnologie e materiali industriali come vernici, lamiere smaltate, proiezioni, altoparlanti e ventilatori colorati. Per comprendere meglio questo progetto è consigliato porsi al centro del Padiglione e percepire in tutta la sua interezza il messaggio umanistico di invito all’apertura e alla tolleranza attraverso inedite forme di espressione artistica.
Al Padiglione Venezia dal titolo Sestante Domestico protagonista è la splendida installazione L’Immagine del Mondo di Pietro Ruffo. All’ingresso un sipario poetico su cui sono impresse le parole di Franco Arminio abbiamo bisogno di un luogo: ci vuole una mano, una casa, un sorriso, qualcosa che ci faccia da perimetro, ci introduce di fronte ad una spettacolare biblioteca/archivio di volumi vegetali che rappresentano il nostro stretto legame con la natura e due grandi globi lignei che raccontano mappe di costellazioni e itinerari di migrazioni.
Un invito a sentirsi a casa pur essendo lontani da casa alla ricerca della nostra storia personale, delle radici emotive ed affettive. Liberi di essere noi stessi ovunque nel mondo.
Al Padiglione Australia dal titolo Kith and Kin è stato assegnato il Leone d’Oro per la miglior partecipazione nazionale. Un allestimento di grande suggestione al quale l’artista aborigeno Archie Moore, da sempre sensibile al problema dell’estinzione delle lingue native australiane, ha lavorato per diversi mesi disegnando a mano con il gesso su pareti e soffitto nero pece un enorme albero genealogico della First Nation.
Ben 65.000 anni di storia e tragedie vissute dai popoli indigeni in seguito alle leggi coloniali, condensati in un unico ambiente con un’installazione centrale. L’intento è spingere i visitatori a riflettere sulla profonda fragilità di questo immenso archivio carico di lutto.
Al Padiglione della Serbia che reca ancora sulla facciata la scritta Jugoslavia va in scena una efficace installazione dell’artista e scenografo balcanico Aleksandar Denić che rappresenta spazi e luoghi di transito per rispondere al tema della Biennale Stranieri Ovunque.
Un grande contenitore articolato in residenze temporanee dove sentirsi estranei anche nel proprio paese. Tra le architetture d’interni e gli scenari domestici troviamo la scritta al neon Europa al contrario, un jukeboxe a cui richiedere una canzone, un frigobar di Coca Cola incatenato e una vecchia cabina per le fototessere. Immaginario di un tempo passato, quasi nostalgico, che rivive nel visitatore.
Il Padiglione Italia del 2024 è rappresentato da un solo artista: Massimo Bartolini con Due Qui/ To Hear. Il suono è l’elemento portante dell’intera installazione. Un itinerario tripartito intorno a cui tendere l’orecchio ponendosi in ascolto di sé e dell’altro.
Nella tesa 1 dell’Arsenale è stata costruita una grande e complessa installazione con tubi innocenti, quelli usati per le impalcature, da cui provengono suoni acustici con al centro una fontana circolare dove contemplare il movimento di un’onda conica.
Nella tesa 2 la statuetta in bronzo buddista è posta all’inizio di una lunga colonna poggiata a terra che riproduce una canna d’organo e funge da spartiacque tra le due grandi pareti colorate in verde e viola che simboleggiano rispettivamente le tonalità La e La bemolle. Infine, nel Giardino delle Vergini, l’installazione di carattere acustico, un coro a tre voci composto da Gavin Bryars, completa il padiglione.
È un collettivo di artisti a firmare l’allestimento onirico e sensoriale del Padiglione cinese dove l’arte del passato si riunisce a quella del presente. Tutto converge verso la simbologia di un antico carattere con lo scopo di creare nuovi spazi di incontro globale tra identità, razze e culture. Mediatori culturali, attraverso piccoli strumenti acustici riproducono suoni per richiamare gli uccelli dalle montagne, come segno di riconnessione con la natura.
Tra i Padiglioni in esterna riflettori puntati su quello della Santa Sede che approda alla Casa di reclusione femminile della Giudecca. Il progetto dal titolo Con i miei occhi a cura di Chiara Parisi e Bruno Racine suggella l’incontro tra artisti di varie origini e differenti fedi religiose e le detenute che accompagnano il visitatore per veicolare un messaggio universale di inclusività.
Il tema centrale è quello della tutela dei diritti umani e degli ultimi, punto focale del Pontificato di Papa Francesco che, primo Pontefice nella storia della Biennale di Venezia, il 28 aprile scorso ha visitato il Padiglione e rivolgendosi agli artisti ha detto: vi imploro, immaginate città che ancora non esistono…in cui nessun essere umano è considerato estraneo.
Un percorso di mostra dinamico, fuori dall’ordinario e ad alto tasso di emotività che vede il visitatore privato di qualsiasi dispositivo digitale, guidato dalle detenute in una visita di circa due ore, dove l’arte diventa nuovo mezzo di connessione umana. Il padiglione è visitabile solo su prenotazione.
Merita una visita anche il progetto Greenhouse del collettivo composto da Mónica de Miranda, Sónia Vaz Borges e Vânia Gala per il Padiglione del Portogallo. Le sale della biblioteca dello splendido Palazzo Franchetti che si affaccia sul Canal Grande davanti al ponte dell’Accademia, si trasformano in un giardino creolo come una serra. Un angolo di biodiversità dove poter riflettere sull’ecologia, la decolonizzazione, la diaspora e le migrazioni. Passeggiando tra le piante si può assistere a performance cariche di pathos ad orari programmati nell’arco della durata della Biennale.
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